Dio è amore che accoglie


Dio è l’amore che accoglie e non che condanna. Lo vediamo proprio nella parabola che Gesù stesso racconta, riguardo il figlio prodigo. Quando infatti “ritorno a casa” quel figlio perduto viene accolto dal padre a braccia aperte. L’idea della conversione è resa appunto con “shuv”, che vuol dire ritorno. Eggià perché conversione vuol dire convertere, dal cammino che ci allontana da Dio, al cammino che ci riporta a Dio. Noi siamo usciti dal suo amore, e quando veniamo sulla terra ci perdiamo nei nostri peccati. Ma ecco che Dio essendo l’amore che accoglie, ci dona la possibilità di ritornare, di cambiare rotta, di ritornare a casa tra le braccia di un Padre amorevole.

Gesù è venuto ad annunciare, questo grande amore paterno di Dio, è venuto a prenderci per portarci a casa, dal Padre, e non c’è parabola migliore del figliuol prodigo. In esso infatti vediamo alcune caratteristiche fondamentali.

Questi aspetti che leggerete sotto, sono tratti da una bellissima meditazione di Mons. Bruno Forte che ritengo sia davvero eccellente ed eleva il cuore. Questo ci fa capire che Dio è l’amore che accoglie, che aspetta e lo fa perché il suo amore vince ogni nostro peccato.

La prima è l’umiltà: il protagonista centrale del racconto si rivela anzitutto come un padre umile. Di fronte alla scelta del figlio che decide di gestir­si la vita indipendentemente da lui, perfino contro di lui, non oppone resistenza. Avrebbe potuto far­lo in base alla Torah, che autorizza il padre ad or­dinare addirittura la lapidazione del figlio ribelle: “Se un uomo – afferma il libro del Deuteronomio (21,18-21). Il Padre della parabola non agisce così: lascia partire suo figlio. Si adegua alla sua decisione e sa aspettarlo con un desiderio carico di infinita umiltà. L’umiltà è dunque la prima delle caratteristiche del Dio an­nunciato da Gesù.

Il Dio cristiano è il Dio della speranza non solo nel senso che è il Dio della promessa e quindi il fon­damento e la garanzia della speranza dell’uomo, ma anche nel senso che è un Dio che sa attende­re nel desiderio e far festa davanti al ritorno della sua creatura.

Questo padre corre incontro al figlio: secondo la mentalità semitica, un simile gesto era a dir poco scandaloso, perché il padre doveva avere sempre un portamento solenne. Era il figlio che doveva presentarsi e prostrarsi davanti a lui. Non sarebbe stato concepibile il contrario: che il padre si movesse verso il figlio, anzi, come qui è detto, corresse incontro al figlio e gli gettasse le braccia al collo. La parabola ci pone dinanzi a un padre che non ha paura di perdere la propria dignità, che anzi sembra metterla in pericolo. L’autorità del pa­dre non sta nella distanza che egli mantiene, ma nell’amore irradiante che esprime.

Un’altra caratteristica non meno importante è caratteristica è la gioia del Padre quando vede il figlio far ritorno. Felice come un bambino, fa festa, lo bacia, l’ab­braccia, dice ai servi di portare il vestito più bello, di mettergli l’anello al dito, i calzari ai piedi e, nientedimeno, di ammazzare il vitello grasso, che è la vera ricchezza della famiglia nella civiltà agricola, pastorale, in cui si inserisce il racconto. Questo padre manifesta dunque una gioia grandis­sima. Tutto ciò che fa è l’espressione evidente del­la gioia: l’abito nuovo, i calzari, l’anello, il vitello grasso; tutto dice una festa eccezionale. È la festa che in cielo si fa per un solo peccatore che si pente e non per i novantanove giusti che non hanno biso­gno di conversione. È la gioia di Dio. Un Dio che sa essere contento, però, prima ha sofferto.

Il padre della parabola non rappresenta un Dio impassibilespettatore freddo delle soffe­renze del mondo, ma un Dio capace di soffrire per amore della sua creatura. C’è nel racconto un’af­fermazione importantissima: “Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato“. Conviene riflettere sulle due motivazioni. Il primo motivo del dolore del padre è che il figlio “era mor­to”, aveva distrutto se stesso. Il secondo motivo “era perduto” si collega al fatto che il figlio si era allontanato da lui. Vi è qui una sfumatura di straor­dinaria bellezza: Dio soffre prima di tutto perché la sua creatura soffre e soltanto in secondo luogo per­ché tale sofferenza è causata dall’allontanamento da Lui. Come avviene per ogni vero amore al pri­mo posto non sta il dolore del nostro cuore, ma il dolore dell’altro, la sua rovina. Così è l’amore di Dio, capace perciò di soffrire di una sofferenza d’amore. Se Dio non potesse amare, semplicemen­te non potrebbe soffrire. Il mistero della sofferen­za in Dio è il mistero della sua infinita capacità di amare, senza la quale noi saremmo soltanto dei bu­rattini davanti all’imperscrutabile mistero.


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